Se c’è un aspetto in cui l’immagine di Pascoli deve essere riveduta e corretta rispetto alla vulgata biografica e scolastica, questo è senz’altro il rapporto che egli intrattenne con le idee politiche del suo tempo, prime fra tutte quelle socialiste. Partendo dagli anni della formazione a Bologna tra il 1873 e il 1882, allorché l’impegno del poeta nelle file dell’Internazionale anarchica di Andrea Costa assunse, per intensità e convinzione, le caratteristiche di una vera e propria militanza; fino ad arrivare alla stagione del suo socialismo maturo, un socialismo umanitario, patriottico, persino cristiano, perfezionato fino a immetterlo nelle retoriche implicazioni del nazionalismo, e ormai lontano anni luce da quello anarco-insurrezionalista di stretta osservanza.
Parlare di un Pascoli socialista trova validità nella storia stessa dell’uomo, nella vicenda personale di un artista che sempre si considerò senza infingimenti socialista, per quanto non ortodosso.
Il Pascoli degli anni maturi sapeva bene che il suo credo socialista non era più quello rivoluzionario – e inevitabilmente violento – della giovinezza: in prima persona vi aveva lavorato per mutarlo, per ridurlo a misura di concetti come carità, fratellanza e concordia umana, concetti che da tempo ormai erano divenuti i cardini attorno cui ruotava il suo sistema di pensiero; eppure ciò non gli impediva di continuare a proclamarsi, sebbene sui generis (ma un genere che da individuale solamente auspicava divenisse patrimonio di tutta l’umanità), socialista.
È innegabile nell’opera pascoliana la presenza di quella che Mario Pazzaglia chiama “una sottile linea rossa”, ovvero una ripresa di spunti e temi che si potrebbero definire genericamente socialisti, cioè non limitati alle ideologie internazionaliste giovanili, e neppure a quelle nazionaliste adulte, piuttosto semplicemente generate da un autentico bisogno di giustizia sociale e da un sogno di palingenesi umana.